14/01/2011

- L’UNIONE SARDA
- Venerdì 14 gennaio 2011 -

Don Ignazio Poddighe, la Sierra Leone e il progetto Lovebridges: in un incontro a Cagliari l’importanza di un progetto di solidarietà reale.
“È più quello che ti porti via che quello che lasci”. Carla, giovane volontaria, lo sussurra asciugandosi le lacrime nel buio della sala dell'Umanitaria, mentre scorrono immagini della madre Africa, immagini di bambini che sorridono, di un piccolo ospedale appena realizzato, di piatti di riso giallo pronti, tanti piatti, tanti sorrisi, tanti bambini, e ragazzi, quelli che sono stati bambini soldato e ora hanno vent'anni e si rispecchiano nell'abisso. Mercoledì di traffico in viale Trieste, a Cagliari, di raccoglimento profondo, quasi contemplativo, nella Cineteca sarda. Pia Pettograsso introduce: si parla di una persona di quelle che la chiamata l'hanno declinata in lavoro sodo in missioni nei lembi più diseredati del pianeta. Solo un disegno diverso di vivere la vocazione, a contatto con le convulsioni del mondo prima che con l'incenso delle sacrestie.
Padre Ignazio Poddighe di Iglesias ha scelto la Sierra Leone, un puntino nel continente, una parte per il tutto: anche lì miseria e assenza. «Non hanno niente, eppure sono felici», sussurra ancora Carla, impastando la commozione a uno dei nodi cruciali della nostra opulenta civiltà occidentale: che abbiamo tutto e non siamo felici. Perché l'abbondanza uccide il desiderio. Perché il nostro spreco affama loro, come diceva Madre Teresa. E donazioni ad associazioni no profit, cinque per mille, adozioni a distanza, hanno sempre più il sapore di un correttivo, un modo per sentirsi meglio stando a distanza di sicurezza da quelle realtà ingombranti.
Vero è che a far del bene si può cominciare dal proprio pianerottolo. Don Ignazio confessa di non aver mai dato un soldo ad associazioni, prima di farne una sua. «C'è qualcosa che non torna se l'Africa, dopo tutti questi aiuti, non cambia». Dopo visite in Burundi e Kenya, dove l'ex presidente, tal Moi, era il quinto uomo più ricco del mondo, don Ignazio capisce che contro realtà governative così è difficile fare qualcosa di buono e giusto.
Va in Sierra Leone, fronte atlantico, un'unica strada, cinque ospedali, sei milioni di abitanti, trenta euro al mese per un uomo che lavora, 12 anni di guerra civile, fino al 2002, causa traffico diamanti, braccia mozzate, bambini soldato. Il mal d'Africa, non nella suggestione poetica, spazza via il profumo dell'incenso, entra nella coscienza del religioso e di un manipolo di volontari.
Lovebridges (www.associazionelovebridges.org) è il ponte dell'amore che unisce la Sardegna a questo puntino africano. Che ha portato alla costruzione di un ospedale, una mensa per i bambini, due case di accoglienza, cinque pozzi d'acqua, una scuola elementare avviata, cure mediche, programmi nutrizionali. Questo in un anno e mezzo.
Per il 2011 don Ignazio alza il tiro, con programmi per donne e uomini: produzione artistica e colorazione dei tessuti tradizionali e gestione della pesca. Perché «c'è una forma di colonizzazione moderna peggiore dell'antica: l'assistenzialismo. Noi non siamo gli uomini bianchi che portano cose e poi se ne vanno: noi restiamo». Scorrono le immagini del già fatto: un terreno tutto di palme, poi lo stesso col centro medico finito, arredato, i macchinari, i letti di ferro coi materassi, un'incubatrice.
Una donna incinta, in Sierra Leone, paga una visita 12 euro, la sanità tutta si paga. E mica dissertano di malasanità, piuttosto vedono in don Ignazio un uomo sopra ogni fede e politica. Così, un paese all'80% musulmano l'ha nominato Paramount chief, massima carica onoraria, capo supremo. «Se mi avessero fatto, qui, monsignore, non sarei stato così felice». E lui, che in Africa si sente sempre ospite, perché non è lì per evangelizzare né per imporre la propria cultura, invita tutti ad andare. «Ci ridimensiona, venite per voi stessi, poi decidete se dedicarvi agli altri». «Aiuta davvero soltanto l'aiuto che aiuta a eliminare l'aiuto», chiosa Claudia, un'altra volontaria, citando il filosofo Joseph Ki-Zerbo. Madre Africa aspetta.
Raffaella Venturi