25/09/2010

- L’UNIONE SARDA
- Sabato 25 settembre 2010 - 
Cronaca Regionale, pag. 11

Ospedale e mensa in Sierra Leone: grazie, Sardegna.

IGLESIAS. Sotto, terreno bucato come groviera, una vocazione mineraria palpitante. Sopra, in superficie, una povertà da brividi. Sorpresa: non si parla né di Sulcis né di Iglesiente. Che c'entrano, per carità. Ma come provincia benefattrice a cui rivolgere tutte le albe del mondo un'imponente serie di preghiere di
ringraziamento. La Sierra Leone nel mappamondo è un po' più giù: Africa, non troppo distante dall'Equatore, versante Atlantico, confini con Guinea e Liberia, protettorato britannico per secoli. <<il secondo paese più povero del mondo, per intenderci>>. Chissà cosa pensano, quei 200 bambini che fanno colazione ogni mattina, di questo lontano posto delle favole che risponde al nome di Siliqua da cui sono piovuti soldi, persone e affetto. O dell'amena Bacu Abis, della deliziosa San Giovanni Suergiu. O dell'esotica Cagliari, per mirare proprio in alto. Aver salva la vita, non morire di malaria o di fame, vuol dire benedire Campidano e dintorni. Altro che Sulcis della disoccupazione e della grande fuga: terra promessa che raccoglie in tre anni il tanto per costruire ospedale, mensa, case e quel che verrà dopo. Tanto da costringere il ministro del Nord a prendere l'aereo per ringraziare di persona tutti, dal ministro Franco Frattini a Roma a Tore Cherchi a Carbonia. <<We pray for Sardinia, for Italy>>, dice Alie Kamara.
IL TRUCCO DELL'INVITO. l tono è quello del venga-a-prendere-un-caffè-da-noi. Padre Ignazio Poddighe ha sperimentato la tecnica da qualche anno. Gli chiedono conto dell'Africa nera, di quei bambini miracolosamente salvati: come possiamo renderci utili? <<Offrono soldi, oggetti. Io dico: venite voi a portarli>>. E' stato così che questo sacerdote di 45 anni , iglesiente, in tre inverni ha visto passare un centinaio di persone. Venute, appunto, <<a dare una mano>>. Giovani e vecchi, disoccupati e professionisti. <<Ho scoperto che è vero che le cose si fanno con le promesse dei ricchi e i soldi dei poveri>>. Anche se, nel suo caso, il proverbio non è esattamente affidabile. Perché tanti notabili che non hanno piacere di essere nominati hanno fatto partire dalla Sardegna, dentro container, una sala operatoria completa di tutto e un carico di medicinali più prezioso dell'oro.
CURATO DI CAMPAGNA. La sua storia di sacerdote era iniziata in un modo, se si può dire, ordinario. Studi alla facoltà teologica di Cagliari, poi segretario dell'allora vescovo Arrigo Miglio, cappellano del carcere, con Tarcisio Pillola amministratore parrocchiale a Bacu Abis. Trascorre oltre un lustro nella frazione che fu mineraria. A Giovanni Paolo Zedda, nuovo capo della diocesi, prospetta un percorso alternativo: passare qualche tempo in una missione per seguire un istinto che si era fatto vocazione. Permesso accordato. «Ero già stato in alcune diocesi africane. Conoscevo il Burundi, nel periodo in cui ero lì erano stati uccisi diversi sacerdoti cattolici. Avevo trascorso del tempo in Kenya, lì la situazione era migliore». Non è uomo da stereotipi: «Gli africani hanno una mentalità diversa dalla nostra, non è mai troppo tardi per capirlo. Non soffrono a vedere che qualcuno fa una vita migliore della loro, anzi godono a poter in qualche modo partecipare». Alla fine sceglie la Sierra Leone, Paese in testa a un sacco di classifiche mondiali: mortalità infantile, reddito pro capite, malaria. Eppure, dopo la guerra civile, faticosamente democratico, si affanna a spiegare il ministro. Ci sono più partiti, più religioni che non sono l'una contro l'altra armate, libera stampa e diritto di critiche al governo. Poi en passant si ricorda la tragedia dei bambini soldato, la scia di sangue del traffico di diamanti.
PERCHÉ L'AFRICA. Glielo chiedono tutti. Una parrocchia di frontiera nel Sulcis più rock , un esercito di anime che spesso si scontra con l'esigenza di mettere insieme pane e companatico. Che bisogno c'era di partire per la giungla? Padre Ignazio sorride: «È questione di priorità, di numeri. Qui ci sono 100 preti per 150 mila abitanti, a Makeni 25 per due milioni. Qui capita di rado, per fortuna, che un bambino di 2 anni ti muoia in braccio per la fame. Che un ragazzino di 15 crepi perché non ha una pastiglia contro la malaria. Quattrocento piccoli su mille muoiono prima dei 5 anni». Per questo, quando ha messo piede nella Sierra Leone, aveva già le idee chiare. «Ho pensato alla formula scelta dai Padri Missionari nella missione del Burundi, diventata lo schema organizzativo nel Paese». Niente di trascendentale: autogestione. Nessun contributo a perdere passando per il Governo locale ma borsellino in mano e presenza in loco. «Un nostro volontario, al ritorno in Sardegna, ha scritto all'Unicef: perché non ho visto segni della vostra presenza eccetto le toilette chimiche? Risposta: caro signore, noi collaboriamo con i Governi».
L'ACQUISTO. Il primo passo è stato l'acquisto di quattro ettari di terra (giungla) per cinquemila euro. Quattrini personali che padre Ignazio aveva messo da parte. «Si poteva legittimamente spendere un decimo ma ho preferito che tutti i piccoli proprietari di quelle terre fossero contenti». A quel punto è arrivato il primo squadrone di fedeli sulcitani, quelli preoccupati che il loro sacerdote fosse finito chissàdove. «C'erano tanti infermieri e abbiamo monitorato perché morivano tante persone. Sciocchezze, soprattutto gastroenteriti». A quel punto la voce aveva iniziato a girare, una sorta di contagio virale di disponibilità e volontariato. Sono arrivati i primi medici. Poi il ristoratore di successo che ha chiuso la baracca per mesi inseguendo l'esperienza di una vita. Poi il farmacista di Carbonia che ha messo a disposizione esperienza e magazzino. E quattrini, naturalmente, moto ondoso di donazioni in aumento costante. «Per costruire ospedale, mensa e case, abbiamo scelto Lokomasama, un paesino nel nulla sul quale gravitano però 350 villaggi». Si è deciso che tutto sarebbe stato intestato alla diocesi locale. Poi è cominciata la trattativa. «Ho fatto ai capivillaggio un discorso chiaro: noi mettiamo soldi e tempo per costruire un ambulatorio che salvi i tuoi figli, tu devi mettere gratis la manodopera».
LOVE BRIDGES. L'associazione di volontariato è nata praticamente da sé. Una risposta naturale, spontanea. Composizione: ottanta per cento dal sud della Sardegna, più viandanti di ogni ordine e grado che lungo strada si sono invaghiti del progetto. «Per dire, Linda Mitchell, una giornalista della Bbc, ha mollato tutto per aiutarci nel progetto». L'imprevedibile non previsto. Compresa la genialata di costruire un libro bellissimo (“Opotho, uomo bianco”, www.associazionelovebridges.org , www.opotho.it ). Una sorta di diario di bordo in cui ciascuno ha raccontato la sua storia, con le fotografie belle e spiazzanti di Alessandro Pintus e Alessandro Peralta (volontari) e la grafica di Luca Melis (manco a dirlo, volontario). Un'azienda benemerita si è accollata i costi di stampa mentre Padre Ignazio ha girato come una trottola per presentare il volume, un prodigio di austerità e sguardi asciutti. Strappacuore. Morale: cinquantamila euro tondi tondi da buttare dentro l'ospedale. «Per dire, ventimila solo da Bergamo».
UN FARO NEL VUOTO. Oggi l'ospedale, 1500 metri quadri, è completo. Pronto soccorso, strumentazione chirurgica d'avanguardia nella sala ospedaliera, lettini, sterilizzatori che sembra poco ma sono macchine salvavita, 30 posti letto, grande farmacia, un laboratorio. «Le analisi del sangue sono inverosimili, usano vetrini sporchi. A Lokomasama, con i nostri macchinari elettronici, non accade più». Sono finite anche le due case costruite per ospitare i volontari. «I primi due anni non sapevamo mai dove andare a dormire, una notte dai comboniani, un'altra dai salesiani. Adesso chi va lì sa che troverà un letto, un bagno e una cucina». Un'altra falange di appassionati è in partenza: c'è chi va in aspettativa non retribuita, chi un lavoro non ce l'ha e sceglie di impiegare gratis i suoi talenti altrove.
IL RIENTRO. A ottobre per padre Ignazio suona la campanella di fine corsa, si rientra a casa: «Anche se io in Sierra Leone tornerò sempre e l'esperienza non morirà più». Dovrebbe essere un ordine di suore infermiere che arriva dalla Polonia a prendere in carico ospedale e mensa dei bambini, un cagliaritano e un sulcitano hanno già dato la disponibilità a restare lì in pianta stabile. «A chi teme che non sia una soluzione definitiva, rispondo sempre: per due anni, se anche finisse, questi bambini avranno fatto colazione, pranzo e cena». E scusate se è poco. Il Governo lo ha ricambiato nominandolo Paramount chief onorario, una supercarica territoriale che lo mette praticamente alla pari del presidente della Repubblica. L'ultimo nominato, per capirsi, è stato Tony Blair. Una star che, agli occhi dei sierraleonesi, cede il passo solo a una celebrità assoluta: Mohammed Kallon, 31 anni, da Freetown (capitale dello Stato). Oggi attaccante della Nazionale e di una squadra cinese, dodici anni fa nel Cagliari. Quando Massimo Cellino ha invitato ministro e seguito alla stadio Sant'Elia, c'era un emozione da tagliare a fette. Padre Ignazio è grande. Ma l'erbetta su cui ha corso Kallon non ha rivali.
Lorenzo Paolini